Welcome in Crete!

Quando arrivai a Creta la prima volta, la prima cosa a cui pensai fu: ‘Ok, sono nel Terzo Mondo’. Non per essere snob o razzista, ma perchè io il Terzo Mondo me lo immaginavo proprio cosi’. C’è da dire che non c’ero mai stata e che quindi mi immaginavo qualcosa di un po’ diverso.
Arriviamo all’aereoporto, prendiamo una navetta che ci porta fino a Iraklion, alla stazione degli autobus. E fino qua, ok. La stazione sembrava casa di uno, con gente che ti fissava masticando e giocando con il komboloi (vedi link: komboloi), ma vabbé. Sembrava uno di quei western quando arriva la diligenza e scendono gli stranieri. Ecco, senza le pistole e i cappelli da vaqueros. Da li’ prendiamo un secondo autobus e si arriva finalmente a Rethymno, meta finale. Descrivo il viaggio: eravamo in tre nell’autobus, vedo le cinture di sicurezza e mi metto a ridere, l’autista parte e smetto di ridere. Mi allaccio rapidamente la cintura. Uno che pensava che io stessi partorendo o che era stato informato che la moglie stava partorendo o che si era dimenticato la pentola sul fuoco, non so. Siamo lanciati a tavoletta su strade che non sono di terra, ma quasi, a circa 120 all’ora di media, con punte di 150, con strapiombi poco invitanti sul mare (che si’, saranno anche belli, ma non ho voglia di vederli cosi’ da vicino) con tutti i finistrini abbassati, il rumore del motore che non ce la fa e noi che recitiamo il rosario (da notare la somiglianza incredibile con il komboloi…). Comunque arriviamo incredibilmente incolumi nella piazza dei Quattro Martiri. Bel nome. Quelli che avevano preso l’autobus prima di noi, I suppose.
Due settimane dopo il nostro arrivo a ottobre cominciano i Monsoni. Finiranno solo a metà febbraio dell’anno dopo. In una delle isole più aride del pianeta ha piovuto ininterrottamente per circa quattro mesi. Durante questo ameno periodo ha pure nevicato. Nevicato. Fronte mare. Gli autoctoni andavano in giro ripetendo increduli: ‘Una cosa cosi’ non si è mai vista! Non si è mai vista! Mai vista!!’ Ecco, a quel punto cominci a pensare che qualche divinità ce l’abbia con te personalmente. Se poi uno è, come me, un filino paranoico, comincia a costruirsi un larario o un altare personale e ci brucia l’incenso per ingraziarsi anche la Fata Turchina, per non far torto a nessuno. Anche perchè in camera mia era apparsa una bella muffa nera (che sta bene su tutto); a qualunque ora del giorno o della notte uscissi pioveva con gradazioni di intensità diverse, ma sempre pioggia era; e le strade della cittadina si erano tramutate in una seduta gratuita e giornaliera di fangoterapia.
Un weekend mi sono assentata e ho scoperto che nel mentre una mareggiata aveva spinto l’acqua fino a metà della scala che portava alla mia camera. Rassicurante. Soprattutto quando te ne informa il padrone di casa, mentre sta spazzando via con una scopa di saggina, dalla suddetta scala, fogliame vario, che assomiglia molto a delle alghe, condite da granchi e conchiglie, e mentre sospira: ‘Una cosa cosi’? Qui? Mai vista! In trent’anni mai vista!!’. E la fortuna di esserci, dove la mettiamo? Una vita da protagonista, altrochè! Ecco, magari la prossima volta che ci sarà un evento epocale, me lo dite in anticipo, che mi trovo un impegno, eh?

Grecia: notte all’ospedale

Vado ad un festa a casa di amiche spagnole. Si beve, si scherza, si ride. Il solito. L’unico altro italiano alla festa era un tipo che a me non piaceva neanche un po’. Comunque beve per tutto il tempo (un rachi locale, fatto in casa, con cui, probabilmente pulivano i vetri) e beve anche di più quando andiamo in un locale. Troppa musica, troppo casino, decido di tornare a casa, ché sono stanca. Mentre sto salutando una ragazza spagnola, vedo il tipo italiano e gli urlo che vado a casa. Annuisce con il capo. Io continuo a parlare con la spagnola e vedo il tipo che cade lungo disteso davanti ai miei piedi. Letteralmente. Sulle prime penso ad una manifestazione di affetto, ma poi capisco che non è verosimile. ‘Bon’, mi dico, ‘è ora di andare.’ e mentre sto tentando di guadagnare l’uscita, le spagnole si agitano. Moltissimo. In due o tre lo si porta fuori. Io cerco sempre di svicolare. Mi dicono di cercare di parlargli. Sembra svenuto. Io lo metterei a letto e arrivederci. Gli altri invece insistono, tranne un paio, per portarlo in ospedale. Vabbé. ‘Vieni anche tu!’ e io penso: ‘Io?? Perchè io??’ Gli ospedali mi mettono angoscia e poi, sinceramente non mi sembra grave, ha anche vomitato. Si, ok, sembra svenuto, ma respira. Si, ok, non parla, ma magari è solo timidezza. Si, ok, sono l’unica italiana qui, ma parla benissimo inglese. Si, ok, ok, è che non mi sta tanto simpatico, tutto qua. Va bene, va bene, sto camminando! Arrivo, arrivo… Penserete che sia una persona cattiva. Magari è anche vero.
Alla fine andiamo in ospedale, l’infermiera (non il dottore, che, in Grecia, fa parte di quelle creature mitologiche, che, si dice, potrebbero morire alla sola vista di un paziente) lo mette sotto salina e ci dice che deve fare due flebo e di chiamarla quando è finita la prima o se ci sembra che la situazione cambi in qualche modo. Nel mentre arriva il resto delle spagnole, una delle quali, nel tragitto, si è storta una caviglia. Nel giro qualcuno portava male. Dopo che è stata medicata, loro vanno a casa. Io resto con la creatura. Restano, momentaneamente, due francesi, poi una dei due cade dal sonno e se ne vuole andare a casa, cercando di convincere anche noi. Io dico che resto, metti mai che serva qualcosa e metti mai che debba avvertire qualcuno a casa. Rimaniamo io ed un altro. Ad un certo punto, arriva un ragazzo greco, ubriaco, che viene affiancato alla creatura. Mi vede (è cosciente per un po’) e comincia a chiamarmi: ‘Kopela, kopela…’, dico che non capisco il greco, per levarmelo un attimo. E quello: ‘Where are you from? How old are you? Are you a student?’ Rispondo per gentilezza, ma già mi sono un po’ innervosita. A quel punto butta il carico da dodici e se ne esce con un: ‘You are beautiful!’ E qui capisci che si è bevuto una damigiana di ouzo come minimo. Poi la domanda fondamentale, indicando la creatura lunga distesa ed immobile da ore, sul lettino di fianco: ‘Is he your boyfriend?’ E prima che io riesca a dire una cosa tipo: ‘Ma manco se fosse l’ultimo uomo sulla Terra, ma manco se la specie umana fosse a rischio estinzione, ma manco sotto LSD, ma manco se avessi subito una lobotomia, ma manco in sogno, ma manco morta!’ Perchè il concetto fosse chiaro. Dicevo, prima che io riesca a dire qualcosa, vedo, con la coda dell’occhio la mano della creatura che si alza (Usti! Allora è vivo! Sono quasi contenta), si chiude lasciando fuori un dito (l’indice, maligni!) e lo scuote a destra e sinistra in segno di diniego. Immaginatevi la scena: ragazzo-finto-morto-semi-comatoso disteso sul lettino, con la flebo infilata nel braccio, che, senza aprire gli occhi, fa segno di no con la mano sinistra appena al di sopra del lenzuolo. E io che penso: ‘Parliamo da mezz’ora e tu hai deciso di intervenire adesso? Tra l’altro, non vuoi smettere di respirare per un dieci minuti, solo per vedere un sorriso sulle mie labbra?’ Il Francese, dall’altra parte del letto è talmente piegato dalle risate che penso che si soffochi. A quel punto penso seriamente di creare una bolla d’aria nella sua flebo, ma ci son troppi testimoni e desisto. Il mattino dopo, verso le 6 o le 7, l’infermiera ci dice che possiamo portarlo a casa. Lo svegliamo, riesce a camminare, andiamo verso casa. Lui davanti e noi due dietro. Cammina veloce, entra in casa, chiude la porta. Io e il francese ci guardiamo allibiti. Fammi capire: ti abbiamo portato in ospedale, siamo stati con te tutta la notte a vedere come stavi, non abbiamo dormito e tu neanche un porca miseria di ‘Oh, grazie mille, ragazzi!’ Ma va’ al diavolo! La prossima volta che stai male noleggio un trattore e ti passo sopra!

Grecia: la biblioteca

Non sempre la biblioteca era aperta e anzi, molto spesso uno arrivava davanti alla porta e la trovava chiusa. Questo sconcertava anche i Greci. Alla domanda: ‘Scusa, perchè è chiusa?’, risposta: ‘Festa militare.’ e tu: ‘Ancora? Ma è la terza questo mese!’. Da qui la mia idea personale che fare il militare dovesse essere, in fin dei conti e Turchi a parte, un lavoro niente male…
Al mattino quindi arrivavo davanti ad una porta a vetri, varcavo la soglia e sulla sinistra c’era il bar, sulla destra la biblioteca. Da una parte vociare allegro, odore di croissant e caffé, dall’altra polvere e silenzio. Per rendere ancora più difficoltosa la scelta, nel limbo c’era una fitta coltre di fumo (si fumava ovunque). Totale: capatina al bar obbligatoria, due chiacchiere e poi al lavoro. Gli stranieri. I Greci entravano in biblioteca per sbaglio, ingannati dalla nebbiolina, oppure in periodo di esami / consegna tesine. Non che si potesse seriamente studiare, là dentro. Tranne tra le dieci e l’una, quando c’eravamo solo noi stranieri e qualche irriducibile. La gente parlava tranquillamente, rispondeva al cellulare e studiava ad alta voce da sola o in gruppo. A quel punto, uno fotocopiava le sue cose e andava a studiare nella terrazza di casa sua. Casino per casino, meglio i gabbiani, il rumore del mare e i turisti in strada. E alla fotocopiatrice c’era lui: l’aiuto fotocopiatore. Colui che ti aiutava a fare le fotocopie. Giuro. Che uno dice: sei all’università e non riesci a farti le fotocopie da solo?? 
Come tutte le biblioteche aveva un microclima a parte con -20° d’estate e 40° d’inverno. Ma c’erano le finestre. Finchè si sono accorti che la gente lanciava fuori i libri e li recuperava poi. E ci hanno sigillato dentro. Dalle finestre si vedeva il mare. E uno si chiedeva perchè diamine stesse là invece di andare a fare il bagno. Insomma, a mio avviso, quella biblioteca era concepita per non farti studiare. Per studiare dovevi superare una serie di prove di volontà: ignorare bellamente il sole caraibico e le innumerevoli panchine all’ombra di cui era disseminata l’area antistante, resistere al bar, non arrabbiarti con il tipo dei controlli che ogni volta aveva qualcosa da ridire, trovare un posto, fingere di non sentire il vociare, le suonerie, le risa sguaiate, non guardare fuori dalla finestra e resistere stoicamente a temperature proibitive. Secondo me, nella selezione dei migliori, i Greci erano un pezzo avanti…
Poi c’erano circa una decina di computer. Da utilizzare per delle ricerche in internet o per scrivere delle tesine? No. Per giocare a carte o chattare con gli amici. Tu eri in coda ad aspettare di poter scrivere la tesina che dovevi consegnare ieri (ricordo che, all’epoca, i portatili costavano come un appartamento a Cortina), maledicevi e guardavi male quello che stava giocando e quello, quando finalmente si alzava (dopo un pezzo, mica riuscivi ad intimidirlo, eh?), ti guardava torvo. Me ne ricordo uno, in particolare. Dopo ore si alza e mi dice: ‘Ti lascio il posto, vado a mangiare, ma quando torno lo rivoglio, eh?’ CONTACI!

Grecia / Cibo e dintorni (1)

Parlare del cibo greco sarebbe un po’ banale, lo ammetto. Infatti non do’ ricette, che sembrerei la Parodi della situazione, ma descrivo un po’ quelli che, secondo me e per quello che ho visto, sono gli aspetti più curiosi di questa nazione. Ultima considerazione: in Grecia si mangiava con poco, piatti buonissimi e non era affatto caro. Poi si doveva fare astrazione dal livello igienico-sanitario medio-basso, ma non sono mai stata male. Per il cibo. Merito degli anticorpi di mezzo metro che ti si sviluppano quasi subito, suppongo.
In Grecia ci sono delle usanze diverse dalle nostre:
– i polpi si stendono al sole come la biancheria (cercate, cercate su google…);
– lo yogurt si taglia con il coltello e, in assenza, forse anche con un grissino, ma se lo mangi con il miele sei un turista;
– i Greci (quelli che ho visto io) non mangiano al ristorante, nel senso che ordinano da mangiare, ma poi spiluccano svogliatamente;
– la pita è un piatto tradizionale greco, il fatto che somigli al kebab, è un caso;
– i dolci con la crema sono fatti con la philadelphia. Me l’ha detto un pasticcere. Son rimasta basita. Il miglior dolce in assoluto è questo: i kalitsounia.
– l’insalata detta ‘greca’ si fa con: olive nere, feta, cetroli, pomodori, cipolla viola, sale, olio, pepe e origano. Punto. Non ci mettete altro, senno’ è un’altra roba. Un po’ come mettere la panna nella carbonara. Vedete voi. 
– carne di caprini ed ovini come se piovesse. Non piove nessun maiale, quindi niente salami, prosciutti, cotechini, ecc. 
– mai visto un piatto di pesce a Creta. Mai trovata una taverna, di quelle per i locali, che servisse pesce in qualche modo, tranne il solito polpo e la taramosalata, fatta con le uova di pesce;
– si mangiano spesso piccole porzioni, tipo le tapas spagnole, con varie cose, anche fritte. Quindi ci si strafoga lo stesso;
– gli snack salati sono travestiti da cornetti dolci o da finte sfogliatine. Poi ci si trova dentro la carne tritata, le erbette o il formaggio e uno si soprende;
– si girare con il bicchierone di caffé shakerato composto da 2/3 di schiuma ed 1/3 di caffé, che poi, di solito, è quello solubile;
– il caffé tradizionale si beve freddo, su tazze apposta e si lascia un bel fondo per evitare l’effetto sabbia sotto i denti perchè non è filtrato. I giovani non lo bevono, fa nonno. Io trovo che faccia vintage.
– se pensate che la grappa sia forte, dovreste provare il raki, che non scherza (50°), ma soprattutto lo tzipouro, che è una bevanda creata per evitare un sovrapopolamento nazionale;
– si mangia a tutte le ore del giorno e la sera non prima delle 22;
– la retzina sarà anche tradizionale, ma fare il vino con la resina è tutto un concetto. Poi, son gusti personali.

Grecia: le pecore

ATTENZIONE! Racconto che potrebbe turbare le menti sensibili, siete avvisati!
Un giorno di sole, io e un paio di baldi giovani decidiamo di andare a fare un giro nelle montagne dell’interno dell’isola. Dopo aver camminato per un bel po’ e aver fatto un giro notevole, decidiamo di tornare verso casa. Io ringrazio un paio di divinità dell’Olimpo (che son di casa e son quelle più vicine) perchè stavo per lasciarci la pelle. Non sono molto sportiva, che si arrendano quelli dell’oroscopo, che mi dipingono come una che corre, salta, nuota e tira con l’arco, il tutto in un pomeriggio. Sono del sagittario e son pigra. Insisto che sia un mio diritto costituzionale. 
Comunque, ad un certo punto, nonostante la cartina che tenevano loro (E che? Diamo una cartina in mano ad una donna? Si è mai visto?), ci perdiamo e mi chiedono di andare a chiedere informazioni ad un tipo che, lo vediamo in lontananza, sta nel cortile di casa sua. La cartina la tengon loro, ma quando si tratta di parlare, si passa al: vai pure avanti tu, non vorremmo sembrar maschilisti. Ero anche quella che parlava meglio greco (il che è tutto dire…), ma non credo fosse l’unica motivazione.
Comunque mi avvicino al signore e mi accorgo quando sono a circa un tre metri, che è un po’ occupato. Sta squartando una pecora, con un coltello che è lungo come il mio braccio. Ha una di quelle retine tipiche dei cretesi sulla testa e un altro coltello infilato nella fascia dei pantaloni, una benda su un occhio e, sospetto, una gamba di legno ed un pappagallo in casa. Mi si gela il sangue e per poco non svengo perchè va bene tutto, ma impressione quella povera bestia la faceva. Mi dico che son finita in un film dell’orrore di serie B e che, non essendo il biondone avvennente che alla fine sopravvive con il protagonista muscoloso, moriro’ per prima. Vaglio quindi tutte le possibilità: scappo in direzione opposta, ma ci siamo già persi e moriro’ di fame perchè non ho mai voluto fare lo scout o la coccinella o quello che è; chiedo informazioni guardando da un’altra parte e fingendomi strabica; lo guardo intensamente negli occhi, ma puo’ essere che lo interpreti male; chiedo aiuto ai baldi giovani che sono dietro di me, indietreggiando furtivamente e lentamente, ma poi penso che non sanno usare manco una cartina e questo non mi rassicura per niente; vado incontro al mio destino in modo coraggioso e stoico. Opto per la turista decerebrata, che funziona sempre. Sorrido forzatamente, saluto, mi scuso un due, tre volte e chiedo da che parte si trovi la città. Lui è gentile (ma non sorride, ci mancherebbe) e mi indica la strada agitando il coltellaccio insanguinato. Ascolto e prendo nota delle indicazioni, mentre chiedo comunque perdono per i miei peccati, perchè non si sa mai. Alla fine ringrazio, giro sui tacchi e ci allontaniamo tutti velocemente verso la direzione indicata. Era anche giusta. Insomma, lo so, non si giudica la gente dall’abbigliamento, ma mi sarà dato atto che è un po’ difficile far finta di niente mentre uno sgocciola sangue sull’erba, no?